Specie umana

Data di pubblicazione: 2 Ottobre 2023

Scritto da: Andrea Ronchetti

Specie umana

Il potere della coo-per-azione

Nella foresta tropicale esistono circa tre milioni di specie animali. Tra queste ci sono le formiche rosse, che vivono sotto terra, nella costante minaccia che un’alluvione le spazzi via. D’altronde, alla natura non interessa che una specie voglia sopravvivere, deve dimostrare di meritarselo. Così, quando arriva un’alluvione le formiche rosse si aggrappano le une alle altre, creando una sorta di zattera vivente, che galleggia sulle acque, per mesi se necessario.

Come può una specie trovare uno stratagemma simile? Per istinto? Per tentativi ed errori? C’è stata forse una formica che mentre veniva spazzata via dall’acqua si è aggrappata a un’altra, scoprendo che insieme potevano galleggiare? E se questo capitasse a noi?

Se fossimo noi, proprio come le formiche rosse, a sapere esattamente cosa fare ma non potessimo comunicare? Come ci faremmo capire dagli altri? In che modo chiederemmo aiuto? Non siamo la specie più forte del pianeta, né la più veloce, forse nemmeno la più intelligente, l’unico vantaggio che abbiamo è la nostra capacità di creare legami (così come di distruggerli), la possibilità di provare emozioni consapevoli, le quali ci spingono a cooperare, ad aiutarci a vicenda, permettendoci di identificarci con gli altri, proprio perché siamo in grado di provare comprensione, amore e compassione. E tutto questo ci rende più forti, più veloci, più intelligenti. Per questo siamo sopravvissuti fino ad oggi, per questo vale la pena vivere.

Noi esseri umani abbiamo un impulso innato a condividere le nostre idee e il desiderio di essere ascoltati fa parte del nostro bisogno di comunità. Per questa ragione non ci stanchiamo mai di inviare segnali e segni, per questo li cerchiamo negli altri. Siamo sempre in attesa di messaggi, sperando di realizzare una connessione, e se non riusciamo a riceverli non vuol dire che non siano stati inviati, significa solo che, troppo spesso, non ascoltiamo abbastanza. Non osserviamo abbastanza. Nonostante le nostre avanzate tecnologie di comunicazione, nessuna invenzione è efficace come la voce umana; che provenga dal nostro corpo, da una nostra espressione, che sia frutto di un timbro, di un tono, o che siano suoni trasformati in parole, non ha alcuna importanza. È voce.

La nostra voce è unica, perché lo siamo noi, anelli essenziali della grande catena umana. Individui con speranze, sogni, bisogni e desideri. Nondimeno, ogni essere umano è l’insieme di una dozzina di apparati. Un corpo costituito da sessanta trilioni di cellule, che contengono proteine, DNA, organuli. Quello che sembra un individuo in realtà è una rete. La mappa complessa di una immensa comunità che vive e respira, formata da lunghe arterie principali e scorciatoie nascoste, che aspettano di essere trovate. Al punto che ogni speranza che nutriamo, ogni desiderio che realizziamo ha un impatto molto più grande di quanto possiamo immaginare. Quello che a noi può sembrare solo uno scherzo del destino, un’azione senza importanza, visto da un’altra prospettiva è un filo che viene tirato, per rimettere le cose al loro posto, per riprendere il percorso giusto nella mappa. E anche quando i fili sembrano irreparabilmente sfilacciati non si rompono mai. Non completamente. Tutto è collegato, tutto ha un preciso criterio di connessione e a noi non resta che scegliere il percorso. A noi spetta agire.

Noi umani – come ci ricorda Elena Meli, in uno stimolante editoriale del Corriere della Sera di qualche anno fa – abbiamo moltissimi “superpoteri” di cui non ci rendiamo conto. Si tratta di capacità sviluppate in migliaia di anni di evoluzione e che oggi ci rendono la specie egemone sul nostro pianeta. Ciò di cui siamo capaci dipende dalle caratteristiche del nostro cervello, più potente dei computer nel fare calcoli probabilistici, in grado di adattarsi e superare i suoi limiti intrinseci, capace perfino di leggere nella mente degli altri. E non ci sono trucchi: è merito dell’empatia. Più di tutti gli altri animali l’essere umano ha sviluppato la capacità di partecipare ai sentimenti altrui al punto da poter decifrare e perfino anticipare i pensieri e i comportamenti di chi ha di fronte. Il nostro istinto ci spinge ad avere pregiudizi e a costruire barriere, tuttavia restiamo comunque una specie cooperativa: l’empatia ha consentito l’evoluzione del branco e ci ha permesso di realizzare la società come la conosciamo oggi. Queste abilità relazionali non sono determinate soltanto dai nostri geni, ma si possono imparare. La base biologica di tutto questo risiede nei neuroni specchio, che consentono al nostro cervello di vivere una sorta di “simulazione dell’esperienza altrui”, essenziale per comprendere davvero chi abbiamo di fronte e interagire con lui. A volte, però, lo specchio si rompe e l’empatia diventa impossibile. Un’impossibilità che si trasforma in una “gabbia di sofferenza”, prova evidente di quanto il benessere e le relazioni si fondino su questo vero e proprio “superpotere”.

Il nostro cervello sembra davvero disegnato per credere in qualcosa che va oltre ciò che vediamo e tocchiamo, il punto è che spesso il quadro d’insieme ci sfugge, la nostra coscienza ci lega ad una visuale troppo limitata della realtà e questo ci fa sentire soli, quando non lo siamo affatto. Ed è proprio nei momenti di tragedia o di gioia collettiva che l’esperienza emotiva comune fa sembrare la nostra vita meno casuale, è solo attraverso la condivisione che ci riscopriamo di nuovo come specie e non come semplici individui, che agiscono in uno spazio apparentemente grande e che inseguono un tempo che non sembra mai abbastanza. Due variabili, attraverso le quali la natura disegna per noi percorsi difficili da prevedere e che solo alla fine ci fanno riscoprire il senso della nostra esistenza. E, spesso, questi percorsi passano spesso attraverso la perdita.

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